sabato 3 settembre 2016

La relazione di coppia

-Dalla dipendenza tossica, alle forme dello scambio-


E. Hopper, Room in New York, 1932


Ci confrontiamo, nel quotidiano lavoro terapeutico, con racconti della vita sentimentale di coppia, spesso caratterizzati da scarsa conoscenza reciproca, mancanza di progettualità, assenza di interessi comuni entro cui coinvolgersi, legami stringenti che si trasformano, talvolta, in forme di relazione quasi tossiche. La coppia diviene, a queste condizioni, uno spazio ove riversare le proprie personali frustrazioni, che insieme a quelle del partner sono in grado di generare malcontento ed esasperazione. Si ha bisogno, in questi casi, del proprio partner non tanto come qualcuno con cui scambiare, piuttosto come di un alleato persecutore (il paradosso è d’obbligo) di cui non si può fare a meno, ma che viene considerato, contemporaneamente, responsabile delle proprie sofferenze. L’altro -o naturalmente l’altra- diviene a tutti gli effetti un compagno di sventura. 
La forma che tende assumere la relazione ricorda la tossicodipendenza. 
Lui è importantissimo per me. Ne ho bisogno in modo assoluto, ma la dipendenza che mi fa sentire è talmente forte che avverto anche la necessità di liberarmene, perché sento anche quanto questo rapporto mi faccia male…” 
Questo potrebbe essere l’esempio di un pensiero sulla propria coppia fatto da una paziente in terapia. Ecco allora che il timore della dipendenza si fa forte, si ricercano degli spazi propri dove rifugiarsi, evitando così di sentire quel legame come qualcosa che vincoli troppo, che non faccia sentire liberi!
Constatiamo quanto intorno all’espressione e all’esperienza della dipendenza circolino fantasie persecutorie; posizione relazionale di cui dover fare possibilmente a meno, in quanto ricondotta ad una condizione che fa sentire fragili, vulnerabili, alla mercé dell’altro. 
La parola stessa dipendenza tende, anche a livello di senso comune, ad assumere immediatamente una valenza problematica, negativa, laddove, invece, nella sua accezione originaria, segnala quell’esperienza di interconnessione profonda che caratterizza la relazione stessa. Per dirla in altri termini, non ci si può sentire dentro una relazione senza avvertire di dipendere dall’altro!
Ma come viene vissuta e sentita questa esperienza di dipendenza all’interno della coppia? A che tipo di fantasie ed emozioni si associa l’idea stessa del legame? Quanto ci si sente interconnessi o, viceversa, soli nel vivere il rapporto di dipendenza?  Quanto ci si sente con-fusi, dentro un’intimità che minaccia i confini? 
E’ a partire da interrogativi di questo tipo che tentiamo, all’interno dello spazio terapeutico, di avviare una riflessione che permetta ai nostri interlocutori di pensare la propria coppia ed il proprio modo di stare (o non stare…) all’interno di una relazione. 
Riteniamo che, aldilà delle diverse problematiche e specificità che ciascuna situazione clinica presenta, l’elemento comune a tutte le relazioni di dipendenza tossica, sia rappresentato dal fatto che questi legami assomiglino molto alla relazione che il bambino piccolo instaura nei confronti dell’adulto; una relazione dove il bambino non sembra avere molta voce in capitolo; una relazione dove si subisce l’altro piuttosto che promuovere lo scambio, non trattandosi, naturalmente, di un rapporto tra pari. 
Nella relazione genitoriale, l’adulto e il bambino non sono sullo stesso piano, in quanto quest’ultimo non è ancora competente a costruire il bene proprio ed il bene reciproco. 
Per dirla in termini più semplici, il bambino non ha ancora sviluppato gli strumenti affettivi e relazionali per prendersi cura di sé, a partire da un riconoscimento dei propri bisogni e desideri. Alla luce di questo stato delle cose, non può certamente neanche prendersi cura dell’altro e della relazione! Le relazioni con gli adulti di riferimento si configurano come i luoghi dove potenzialmente il bambino ha la possibilità di maturare queste competenze. 
Il grado di sviluppo di tali strumenti affettivi dipende dalla storia di ciascuno, e dalla storia  proprie relazioni significative. E’ con questi strumenti, che possiamo immaginare nei termini di un bagaglio affettivo, che l’adulto costruisce e si posiziona entro le sue relazioni.
Riteniamo che la fatica e la ricchezza -due facce della stessa medaglia- connaturate alla relazione di dipendenza siano espressione di un lavoro che insieme svolge la coppia ove l’obiettivo sia quello di generare, progettare, costruire e proteggere il bene reciproco prodotto dalla coppia stessa. Al contrario, ci si ritrova ad esprimere il disagio di chi non è in grado di produrre, intanto, il bene proprio. 
Aiutare quindi, in psicoterapia, chi esprime questa difficoltà, significa offrire l’opportunità di implicarsi in una relazione di dipendenza dove si possano promuovere lo sviluppo e la presa in carico dei propri interessi ed obiettivi; premessa indispensabile affinché la relazione possa tenere nel tempo, in funzione di una maggiore capacità contrattuale che possa sì legarci all’altro ma senza stritolarci.  

martedì 19 luglio 2016

L’ansia e la paura di avere paura


  
-Una riflessione sull’ansia, segnale che chiede di essere accolto e narrato per poter essere attraversato- 

W. Sasnal, senza titolo


Spesso le persone che ci contattano allo Studio motivano la loro richiesta di aiuto definendosi ansiosi o lamentando di soffrire di ansia, magari sulla base di una diagnosi proposta loro dal medico di base. Nel consegnarci questa parola è un po’ come se sentissero di averci già detto tutto; come se, a quel punto, non vi fosse molto altro da aggiungere, tanto è vero che poi si fermano, restando in attesa. L’ansia sembra allora diventare un oggetto pesante ed inquietante da consegnare al terapeuta, nella speranza che questi possa farsene carico e farlo sparire dalla circolazione nel modo più rapido ed indolore possibile. In situazioni di questo tipo, l’aspettativa del paziente è quella di eliminare o quantomeno ridurre il sintomo-ansia, così da recuperare una condizione di benessere e ritrovare la serenità. E’ gia su questa premessa che il modello d’intervento medico e quello psicoterapico (quantomeno quello di tipo psicodinamico nel quale ci riconosciamo) si differenziano prendendo due strade diverse. 
Tornando all’immagine dell’ansia come oggetto pesante, il nostro obiettivo è quello di sostenere ed accompagnare il paziente in un percorso di scoperta e conoscenza, mettendoci entrambi in una posizione interrogativa, che provi a non dare nulla per scontato. 
Di che cosa mi parla quest’ansia che avverto? Come posso provare a raccontarla? A quali pensieri, fantasie ed emozioni si associa? Da quanto la sento parte di me? Che ruolo e che spazio ha avuto nella mia storia? 
Questo è solo un esempio delle domande che possono emergere in una fase iniziale di esplorazione ed analisi della domanda; interrogativi che non sarebbe possibile né utile affrettarsi a chiudere con delle risposte, ma che, piuttosto, hanno l’obiettivo di aprire uno spazio, all’interno del quale -insieme- stabilire un contatto con un questo sintomo-segnale che sta tentando di comunicare qualcosa. Ecco, allora, che l’ansia smette di essere un’etichetta che nel suo dire tutto, rischia di non dire nulla, ed inizia a riempirsi di un senso che può essere pensato, narrato e condiviso all’interno dello spazio terapeutico. 
All’inizio di una psicoterapia, la persona con un problema di ansia tende a non trovare le parole per descrivere questa sua sensazione, che, non a caso, si situa al confine tra il livello corporeo e quello emotivo: il fatto stesso di usare espressioni come “ho l’ansia”, o “sono un soggetto ansioso”, ci riporta ad una rappresentazione di tale condizione come evento inspiegabile che colpisce dall’esterno, o come tratto di personalità che caratterizza l’altro da sempre, perché si è fatti così. 
Attraverso il lavoro terapeutico, l’ansia diviene pensabile, può essere tradotta in parole, e connessa a dei contenuti specifici, che permettono alla persona di sentirsi meno smarrita e disorientata, entro una sensazione vaga ed indefinita. Pensiamo questo percorso di elaborazione nei termini di un attraversamento dell’ansia che, quindi, non si configura come un sintomo da eliminare, ma, semmai, come un oggetto -indubbiamente problematico- con il quale imparare a fare i conti e a gestire nel migliore dei modi possibili.  
Il nostro intento è quello di aiutare l’altro a non avere paura di entrare in contatto con questa sensazione, fuoriuscendo dalla fantasia che il cambiamento -e la possibilità di stare meglio- siano legate al raggiungimento di una situazione di eliminazione completa dell’ansia dalla propria vita, obiettivo, questo sì, abbastanza problematico! 
Ci torna in mente il caso di una paziente che si era rivolta ad uno di noi due perché letteralmente paralizzata da un ansia divenuta sempre più pervasiva che l’aveva bloccata, inducendola a ridurre sempre di più il raggio delle sue azioni e la gamma delle sue esperienze, per evitare di sentire l’ansia. Un passaggio cruciale del lavoro ha avuto proprio a che fare con la possibilità di iniziare a pensare l’ansia come una parte di sé che chiedeva di essere accolta, riconosciuta, rassicurata e non più combattuta. Il cambiamento, per questa donna, ha significato sentire di poter andare incontro alla realtà, accettando di farlo con le proprie risorse e anche con le proprie fragilità -ansia compresa- senza avere più paura di avere paura. 

Silvia Lombardi, psicologa, psicoterapeuta, specialista in psicologia della salute
Massimiliano Stinca, psicologo, psicoterapeuta, specialista in psicoterapia dei gruppi

Territorio e convivenza



Riportiamo, qui di seguito, il primo articolo della nuova rubrica settimanale di psicologia - la psicologia nel territorio- a cura dello studio psicologico psicoterapeutico, presente su Urloweb.com.



-La psicologia come professione al servizio della convivenza -

Parte oggi, su Urloweb.com, la nuova rubrica di psicologia; vorremmo provare a presentarla ai lettori iniziando dal titolo: “la psicologia nel territorio”. La scelta di mettere in relazione queste due parole - psicologia e territorio- nasce dal desiderio di sottolineare, sin da subito, la vocazione psicosociale della psicologia clinica che abbiamo in mente. Il suo porsi come scienza che si occupa della convivenza e che si propone di promuoverla. Una definizione di psicologia che pone quindi l’accento sulla relazione con il Fuori dei contesti, piuttosto che sui problemi interni di un individuo, considerato isolatamente. Ci teniamo a sottolineare come questo tipo di premessa non significhi certo non occuparsi dell’individuo, dei suoi sintomi e dei suoi problemi, ma proporsi di andarli a ridefinire, situandoli all’interno delle relazioni con i propri contesti di vita. Al tempo stesso, mettere al centro il tema del convivere, determina un allargamento del raggio di intervento della psicologia, riconoscendo alla funzione psicologico-clinica strumenti e competenze per leggere anche aspetti e problemi propri della realtà attuale. Ma cosa intendiamo per convivenza e, di conseguenza, quali questioni e problematiche possono essere ricondotte entro tale area? Riteniamo sia utile considerare la parola "convivenza" nella sua accezione più ampia e volutamente vaga: ogni volta che siamo alle prese con l’estraneità -dunque in rapporto con qualcuno o qualcosa che è altro da noi- ci troviamo dentro l’ambito del convivere. Pensiamo al genitore preoccupato per il cambiamento repentino del figlio adolescente; alla donna che, dopo anni vissuti entro una relazione a suo dire idilliaca, racconta smarrita ed amareggiata di non riconoscere più il proprio compagno; ad un viaggio in un paese straniero e allo scarto tra le proprie aspettative e la realtà che ci si presenta; al tema dell’immigrazione e alle fantasie e timori che evoca nell’opinione pubblica; alla complessità, ricca di potenzialità ma anche di insidie, dei processi di integrazione, e l’elenco potrebbe continuare. Questioni apparentemente lontanissime le une dalle altre, eppure accomunate dal fatto di poter essere definite, tutte, problemi di convivenza. Questioni che pongono i singoli ed i gruppi di fronte alla necessità di un contatto ed un confronto con elementi di estraneità, più o meno destabilizzanti, talvolta di difficile gestione, perché per definizione portatori di una perturbazione all'interno di equilibri preesistenti. Come avremo modo di vedere nei prossimi appuntamenti, leggere le diverse situazioni dalle premesse che abbiamo iniziato a delineare, permette al modello di psicologia clinica nel quale ci riconosciamo (certamente non l'unico esistente!) di marcare una differenza netta con il modello medico. Una differenza forse non ancora molto chiara ai non addetti ai lavori, visto l'alone di ambiguità, indefinitezza, se non addirittura disconoscimento che circonda la rappresentazione dello psicologo e dello psicoterapeuta. 
Ci piacerebbe che lo spazio di questa rubrica possa divenire, nel tempo, un luogo di scambio e confronto, a partire dalla costruzione di un dialogo con i lettori. Per quanto ci riguarda, siamo intenzionati a fornire elementi che aiutino, chi interessato, ad iniziare a farsi un'idea della nostra disciplina e del nostro modello d'intervento; vorremmo anche, però, poter lavorare su temi ed interrogativi proposti da voi lettori.
A questo proposito, trovate, qui di seguito, un indirizzo e-mail al quale potete scrivere per  formularci le vostre domande. Torniamo, così, al punto di partenza: il titolo della rubrica, lasciandoci con l'immagine di una psicologia che si apre al territorio, facendosi conoscere e chiedendo al territorio di far emergere le proprie domande…


Autori: Silvia Lombardi, psicologa, psicoterapeuta, specialista in psicologia della salute

          Massimiliano Stinca, psicologo, psicoterapeuta, specialista in psicoterapia dei gruppi

venerdì 12 settembre 2014

Il nostro approccio: la psicoterapia psicodinamica



 Il terapeuta II, 1962, René Magritte
                                        
Spesso accade che le persone che ci consultano ci chiedano quale sia il nostro approccio, o che magari, pur essendo a conoscenza del fatto che la nostra metodologia clinica si situi entro l’area della psicodinamica, non abbiano idea (comprensibilmente) di cosa questo significhi.

Con queste poche righe vorremmo provare ad aiutare la nostra utenza, cercando di chiarire – al di fuori di tecnicismi poco fruibili dai non addetti ai lavori- che cosa significhi implicarsi in un percorso di psicoterapia psicodinamica.

Eviteremo di soffermarci su questioni di carattere storico e bibliografico, non essendo questo l’obiettivo che qui ci riguarda; passeremo quindi ad elencare una serie di punti chiave che caratterizzano la nostra proposta di lavoro terapeutico.


1)    Relazione, contesto e sofferenza.

La nostra idea è che la vita psichica produca esperienze emozionali che vanno o in direzione di un migliore adattamento e sviluppo di se stessi o in una direzione che si oppone alla crescita di sè. Lo sviluppo di se stessi non è qualcosa di fisiologico e naturale, piuttosto è un processo che va condotto e governato. La sofferenza psichica è quel segnale che si produce ogni qualvolta ci allontaniamo da forme di adattamento alla realtà più adeguate; in alternativa noi proponiamo di passare dalla sofferenza psichica alla fatica psichica, ovvero a quell’esperienza emozionale che ci allontana dall’impotenza e che ci aiuta, non senza sforzi, a governare l’insieme delle relazioni che caratterizzano i nostri contesti di vita.
 

2)   La domanda allo psicoterapeuta

Se le relazioni con i nostri contesti sono gravate dalla nostra impotenza a far sì che le cose possano cambiare, anche la relazione con lo psicologo sarà caratterizzata e da tale vissuto e dai medesimi ostacoli. Per tale ragione prima ancora che le questioni e i problemi che ciascuno ci sottopone, sarà la relazione che si vuole instaurare ( e che viene instaurata ordinariamente fuori dalla stanza di consultazione ) con lo psicologo il primo elemento da esaminare per comprendere le ragioni della propria sofferenza.  Il nostro compito come psicoterapeuti è quello di promuovere una relazione con l’altro, evitando però che questa si avviti, ancora una volta, lì dove siamo soliti raccogliere la nostra impotenza.

3)    I contenuti e la storia

Certamente siamo interessati a tutte le vicende storiche che il paziente decide di raccontarci ma non abbiamo un interesse specifico a monte per talune questioni. Per tale ragione vorremmo sfatare il mito della terapia come lavoro che si rivolge al passato, a volte anche antico, come necessità utile alla cura. Il nostro obiettivo è aiutare i pazienti nel presente servendoci  certo dei materiali  storici che ciascuno decide progressivamente di offrire alla terapia, ma quale occasione per riflettere sulla dimensione emozionale che attraversa questa specifica storia. La dimensione emozionale costituisce il cemento con il quale ci si è costruiti il proprio mondo relazionale, con tutto ciò che esso implica, adesso, nel presente.

4)    Dalla vittima all’artefice

Spesso accade che la nostra utenza non sappia da dove cominciare a raccontare la propria storia, interrogandosi su cosa sia più "giusto" raccontare. Se da un lato nel corso delle sedute ci premuriamo di aiutare i pazienti a raccontarsi, dall’altro tentiamo di spingere i pazienti a sforzarsi di trovare loro di volta in volta l’argomento da sottoporci. Quest’aspetto diviene per il nostro lavoro molto rilevante, in quanto aiuta le persone ad essere meno spettatori della propria storia; inoltre tale modalità permette ai pazienti di visualizzare quegli automatismi che caratterizzano il loro quotidiano. 
Traguardare tale possibilità, diviene il primo passo per fuoriuscire dalle secche entro cui ci si è arenati: come nuovi elementi su una mappa, dopo aver riguadagnato il mare, sarà possibile tracciare, ancora una volta, nuove rotte. 



 

lunedì 27 gennaio 2014

L'insostenibile leggerezza dell'essere (in psicoterapia)


 Si fa un gran parlare -negli ultimi tempi- di psicoterapia sostenibile, erogata, quindi a dei prezzi accessibili alle possibilità economiche di quanti sarebbero interessati ad avviare un percorso, ma non possono permetterselo.
La questione è drammaticamente attuale, alla luce del difficile periodo che il Paese sta attraversando: un tempo di crisi, segnato da una precarietà -esistenziale più che meramente economica- che, se da un lato sembrerebbe alimentare una domanda di e alla psicologia, dall'altro rischia di lasciare privi di quelle risorse necessarie ad accedere a questa possibilità. Per dirla in altri termini, proprio nel momento di maggior bisogno, ci si potrebbe sentire nell'impossibilità di poter chiedere aiuto.
Se ci limitiamo a considerare la questione da un'ottica fattuale, siamo confrontati con delle evidenze (i famosi dati di fatto) che sembrerebbero lasciare poco margine di manovra: la psicoterapia diviene quella spesa da tagliare (o da non mettere proprio in bilancio) perchè inevitabilmente scalzata da priorità non negoziabili. 
La psicoterapia, dunque, si configurerebbe nei termini di una spesa tanto potenzialmente utile, quanto insostenibile.
Dentro uno scenario di questo tipo, intervenire sui costi della psicoterapia, provando ad andare incontro al cliente attraverso una politica di tariffe agevolate vorrebbe tentare di superare tale vissuto di insostenibilità, agevolando l'accesso a questo tipo di esperienza.
Tutto questo appare molto ragionevole e logico ma, dal nostro punto di vista, non del tutto convincente. 
Pensiamo, infatti, che la questione della sostenibilità della psicoterapia non possa essere compresa se colta solo nei suoi aspetti fattuali: c'è, infatti, un piano emozionale che affianca ed integra il piano "fattuale" della realtà, a volte completandolo, altre stravolgendolo. 
Guardare la realtà da un vertice clinico, significa quindi per noi non certo patologizzarla, quanto piuttosto interrogarci sul rapporto che di volta in volta si costruisce tra questi due piani, quello della realtà colta nei suoi aspetti fattuali, e quello dei processi emozionali che la attraversano e costruiscono.
Torniamo alla psicoterapia sostenibile per provare a spiegarci.
L'ipotesi che proponiamo è che la questione della sostenibilità (o dell'insostenibilità!) della psicoterapia  evochi l'idea di un peso non compreso del tutto se confinato al piano economico; un peso che ci parla dei costi emozionali della psicoterapia, dell'impegno che richiede, aldilà dell'aspetto monetario.
Il nostro Studio pensa, quindi, il costo della psicoterapia nei termini di un onere che provi ad essere sostenibile (economicamente) ma impegnativo, muovendo dall'ipotesi che l'implicazione in un percorso psicoterapeutico passi necessariamente attraverso il superamento di una serie di resistenze e comporti l'assuzione di un impegno, che il costo dell'esperienza segnala sul piano materiale.
La disponibilità ad andare incontro al cliente, in altri termini, non può pretendere, o illudersi, di bypassare la parte di lavoro, responsabilità ed impegno che l'altro è chiamato ad assumersi; pensiamo questo non tanto da un punto di vista etico, quanto piuttosto metodologico.
La psicoterapia, come esperienza di cambiamento, chiede di spendere -e spendersi- molto dal punto di vista delle proprie risorse interne; eludere questo piano rischia di ingannare non solo il nostro cliente ma noi stessi, spingendoci a vedere risultati anche quando questi effettivamente non sono stati raggiunti, poichè sospinti da una fantasia tanto agevolante quanto poco lucida.
Il costo della psicoterapia, dunque, quale "cifra simbolica" che se da un lato vuole apparire sostenibile, dall'altro è obbligata a chiedere un impegno, quindi, un costo.

giovedì 5 dicembre 2013

Psicologia del consiglio




http://d.repubblica.it/famiglia/2013/11/29/news/le_10_cose_da_non_dire_alla_maestra-1910252/

Il link riportato sopra rimanda ad un articolo comparso di recente su D, il settimanale di Repubblica, dal titolo -eloquente- "Le dieci cose da non dire alla maestra di tuo figlio". L'articolo ci offre la possibilità di condividere con voi qualche considerazione sul consiglio, o meglio, sul rapporto, a nostro parere a volte tanto stretto quanto problematico, tra la psicologia e il dare consigli.
L'articolo ci pone di fronte alla classica situazione dell'esperto psicologo che, chiamato in causa, declina il proprio decalogo, nel caso specifico al fine di promuovere una relazione di fiducia tra genitori ed insegnanti; decalogo peraltro curiosamente rivolto ad una sola delle due parti, i genitori.
L'idea di fondo, sembrerebbe essere quella di migliorare la relazione, sulla base di una logica pedagogico-educativa che tratta la comunicazione stessa nei termini di un oggetto-contenuto da trasmettere attraverso una sorta di addestramento.
Vi proponiamo di provare a leggere l'articolo, soffermandovi sulle impressioni che vi produce. Noi lo abbiamo fatto, e esaminando anche i commenti dei lettori, riportati alla fine, quello che pare emergere è, nel migliore dei casi, una sensazione di ovvietà.
Tale sensazione, più che configurarsi come qualcosa di specificatamente connesso a questo decalogo, riguarda i consigli in generale.  
Cos'è, in fondo, un buon consiglio, se non qualcosa di ragionevolmente ovvio; qualcosa che affonda nel buon senso comune? Saggio quanto vogliamo, ma certamente portatore di contenuti non ascrivibili ad un'area specialistica.
Un'altra caratteristica del consiglio, è quella di situarsi su di un livello prescrittivo-normativo, per definizione acontestuale, efficacemente rappresentato dalla presenza del dovrebbe: il piano del "come dovrebbero andare le cose", rigorosamente confinato nell'area della razionalità.
Che spazio occupano, entro questo scenario, le emozioni; emozioni che, evidentemente, non parlano la lingua del dover essere?
Torniamo all'articolo di D, e consideriamo, ad esempio, questa parte del testo:

Per evitare di incrinare il rapporto con la maestra, ecco le frasi che è meglio non dirle, suggerite da Suppa.
1. Sono in ansia quando lo lascio a scuola
Questo fa intendere che non hai fiducia in lei, che non le stai affidando il bambino fino in fondo. La maestra potrebbe interpretare una frase come questa in modo molto svilente. Se la madre si mostra eccessivamente ansiosa, il bambino potrebbe assorbire questo stato d'animo, sentirsi fuori luogo a scuola ed avere difficoltà a fidarsi a sua volta della maestra. E ciò potrebbe renderle il lavoro di molto difficoltoso.
2. Mio figlio non viene volentieri
È un'affermazione che sottintende una responsabilità dell'insegnante, perché sembra voler dire "è colpa tua". Questa frase potrebbe essere sostituita da "secondo lei mio figlio si trova bene, o ha qualche difficoltà?" per lasciare aperta la possibilità di confronto. 


Il decalogo proposto si fonda sull'idea -implicita- che una relazione di fiducia con l'altro possa prodursi affidandosi a delle strategie in grado di garantire una comunicazione adeguata, in quanto sostanzialmente innocua. Politically correct, verrebbe da dire! 
Ci appare infatti importante sottolineare come, nel contesto che stiamo esaminando, l'idea di adeguatezza/efficacia della comunicazione sembrerebbe avere più a che fare con l'obiettivo di non per-turbare l'altro, finendo magari per innescare situazioni conflittuali, che con la possibilità di realizzare un incontro, uno scambio.
Potremmo definire la logica che sostiene questo decalogo, una logica sostitutiva, organizzata attorno all'idea di sostituire l'emozione che si prova con qualcosa di più adeguato ed innocuo, ogni qual volta ci si confronti con qualche dato emozionale problematico
Che fine fa, allora, quel contenuto scomodo, ma indubbiamente più autentico, che si prova? Sembrerebbe semplicemente accantonato, forse dentro la fantasia che possa magicamente dissolversi, perchè fuori dalla vista, come polvere sotto al tappeto. Tale logica appare problematica principalmente perchè esclude dal campo proprio quel livello emozionale che, di fatto, organizza e costruisce le premesse su cui una relazione (e quindi anche la comunicazione) si fonda. 
C'è quindi tutto un materiale che resta inaccessibile e inutilizzabile, dentro una concettualizzazione della comunicazione nei termini di pratica confinata al piano intenzionale (razionale); qualcosa, in altri termini, da prendere alla lettera... come se, verrebbe da dire, non esistesse l'inconscio! Come se la fiducia potesse prodursi, all'interno di un rapporto, a prescindere dalle emozioni, dalle fantasie e dai pensieri che esso evoca nei suoi contraenti, semplicemente dicendo le "frasi giuste". 
Ragionare sul consiglio ci ha portati a riflettere su di una specifica rappresentazione della comunicazione (presente in ambito psicologico e non solo), a nostro avviso strettamente connessa alla pratica del dare consigli e ben rappresentata dall'articolo dal quale abbiamo preso spunto. 
Si potrebbe obiettare che il contesto di un giornale non è, evidentemente, il contesto di una psicoterapia, e che quindi il registro del consigliare si configuri come l'unico utilizzabile in questa situazione. 
Dal nostro punto di vista, tuttavia, sono i modelli che si possiedono a produrre visioni, posizionamenti, trasversali ai diversi contesti, e non il contrario. 
La psicologia che abbiamo in mente, è una disciplina che tenta di non rispondere alla domande che le vengono poste, ma, piuttosto, di aiutare le persone, i gruppi, i contesti che le si rivolgono a produrre creativamente le proprie risposte. 
E' una disciplina che cerca di produrre aperture, traiettorie, dando vita ad uno spazio -reale e simbolico al contempo- entro cui realizzare un'esplorazione, dentro un'esperienza d'incontro e scambio con l'altro. Esperienza perturbante per definizione, che la funzione psicologica si propone, da un lato di rendere possibile, dall'altro di sostenere e contenere mediante la messa a disposizione di uno spazio protetto, entro cui ciò che si racconta -e si vive- possa essere pensato ed elaborato.

lunedì 14 ottobre 2013

Quanto dura una psicoterapia?

Edward  Hopper
Rooms by the sea
( Stanze sul mare )
1952
 
Quanto dura una psicoterapia è senza dubbio uno degli interrogativi che ci vengono maggiormente rivolti: ci è parsa, quindi, una questione interessante da provare a trattare anche qui sul blog.
Iniziamo col dire che, dal nostro punto di vista, non è realisticamente possibile stabilire a priori la durata di un percorso psicoterapeutico; questo, tuttavia, non significa pensare alla psicoterapia nei termini di un'esperienza infinita. Anzi.
La conclusione del lavoro si configura come un orizzonte sin da subito riconosciuto e dichiarato; orizzonte che magari si situa per un certo periodo sullo sfondo, ma che resta comunque a segnalare la presenza e l'irrinunciabile necessità di un limite, necessario a scongiurare la fantasia di una relazione fine a se stessa, senza con-fini, appunto.
L'impossibilità di delimitare a priori un tempo è qualcosa che può spaventare -ci rendiamo conto- evocando il fantasma della dipendenza, ma l'accettazione di questa premessa, si pone come passaggio irrinunciabile per implicarsi ed avviare il percorso terapeutico. 
La relazione terapeutica è, prima di tutto, una relazione; una relazione caratterizzata da confini ed obiettivi specifici, ma comunque una relazione e, come tale, pone i suoi contraenti di fronte alla questione della dipendenza. Non è certamente un caso il fatto che la parola dipendenza tenda ad assumere nella nostra lingua una valenza negativa, tossica -in senso lato oltre che letterale- piuttosto che limitarsi a segnalare neutralmente lo stabilimento di un legame...come se potessero esistere relazioni non dipendenti; come se la costruzione di un rapporto con l'altro potesse realizzarsi a prescindere dall'emergere di vissuti di attacamento, desiderio della sua presenza e inevitabile paura di perderlo.
Di qui la necessità, molto evidente sul piano linguistico, di differenziare forme di dipendenza sana, dalle forme tossiche, tracciando un confine decisamente meno netto e nitido di quanto ci si sarebbe aspettati. E si avrebbe desiderato.
Ma torniamo alla relazione terapeutica. Una delle sue specificità, appare connessa proprio al fatto di porsi come relazione a termine, tesa al raggiungimento di obiettivi che, tuttavia, appare impossibile definire dettagliatamente ab initio. Proviamo a spiegarci più nel dettaglio: un lavoro psicoterapeutico si avvia sempre a partire da una domanda di cambiamento, connessa a fantasie di cura, trasformazione, recupero, integrazione o magari eliminazione di parti di sé, e l'elenco potrebbe continuare, ma il significato, il senso emozionale di queste parole è qualcosa di visceralmente connesso alla storia di ciascuno e all'unicità dell'incontro tra terapeuta e paziente. Qualcosa che si sottrae, per sua stessa natura, a qualsiasi tentativo di categorizzazione o generalizzazione. La domanda che il paziente porta in terapia, la sua richiesta, più o meno chiara ed esplicitata, rappresenta solo un punto di partenza, un pretesto da cui muovere per provare ad avvicinare e contattare un piano del desiderio, assai meno immediato, in quanto non intenzionale. Inconscio. Di qui, l'impossibilità e sopratutto l'inopportunità, entro la nostra cornice teorico metodologica di riferimento, di prendere alla lettera la domanda dell'altro e definire in partenza obiettivi ed intenti specifici del lavoro clinico che ci si appresta a fare insieme.
Il cambiamento, che all'inizio del post abbiamo associato all'immagine dell'orizzonte, è qualcosa che si situa tra la costruzione e la scoperta, perchè se da un lato si configura come l'esito di un lavoro fatto assieme al paziente, dall'altro implica l'attraversamento di un'esperienza di estraneità, assimilabile all'esplorazione di una terra sconosciuta. Esplorazione che non è possibile nè utile dirigere, focalizzare, quanto piuttosto sostenere, promuovere, accompagnare. 
Quanto dura, quindi, una psicoterapia? Quando e come si conclude?
Ogni relazione terapeutica costruisce la sua fine, evento che pone terapeuta e paziente davanti ad una delle esperienze più complesse e difficili del percorso e dell'esistenza umana: quella del separarsi
E' qui che il cerchio si chiude, restituendo il senso profondo, pieno, di un'esperienza di dipendenza tesa a realizzare e promuovere l'autonomia del paziente, oramai provvisto di quegli strumenti che gli consentono di proseguire l'esplorazione da solo.
La fine della terapia, infatti, non implica tanto l'esaurimento delle questioni da trattare, o magari la "soluzione del problema", quanto piuttosto l'emergere di un insieme di pensieri e vissuti che restituiscono una sensazione di conclusione, una consapevolezza non resocontabile, perchè non generalizzabile.
E' qui che anche noi ci fermiamo, riconoscendo un limite oltre il quale il racconto non può spingersi; un limite connesso ad un piano dell'esperienza conoscibile solo se vissuto ed attraversato.